Mi occupo di Venture Capital, cioè di investimenti di capitale privato in startup, da quasi 15 anni e in un così lungo intervallo di tempo ho avuto modo di vedere letteralmente molte migliaia di investor pitch, cioè presentazioni effettuate da startup per sollecitare l’interesse di potenziali investitori.
Questa attività mi ha portato a notare una serie di errori molto comuni nella esposizione del progetto che proverò a riassumere in questo breve articolo. Inizierei da un errore che vedo solo in Italia: quello di imprenditori che pensano sia un’ottima idea fare un pitch di diversi minuti a braccio, senza usare slide di supporto. In genere chi fa questo errore ha la buffa convinzione che le slide servono allo speaker per ricordare quello che ha da dire e, quindi, fare una presentazione priva di slide sia un modo per dimostrare la propria abilità. In realtà le slide servono a chi ascolta per memorizzare e capire quello che viene detto, per cui in un pitch senza slide l’unica cosa che si capisce è che chi parla non merita attenzione e, quindi, investimenti. Una seconda classe di errori è quella relativa a quello che potrei definire ermetismo elitario: lo speaker inizia a parlare del proprio progetto senza presentarsi, per cui nessuno ha idea di chi sia. In genere chi fa questo errore tende a mantenere il segreto sino alla fine per cui è piuttosto frequente vedere, nella slide finale dell’intervento, che non vengono riportati i dati di contatto personale, ma numeri di telefono fisso e mail del tipo info@. E’ una cosa che genera un certo risentimento in chi ascolta il pitch in quanto il messaggio che arriva è qualcosa del tipo “sono una persona importante, non ho tempo da perdere con voi miseri investitori per cui datemi i soldi che chiedo e discutete i dettagli direttamente con la mia segreteria, laddove riusciate a convincere il portiere, che risponde al fisso, a passarvela”.
Un altro tipo di errori è quello relativo alla progettazione grafica delle slide. Si passa dai nostalgici dei felici anni ’80 (slide rigorosamente in 4:3, con quei pupazzetti neri che già allora generavano una tristezza infinita in chi le guardava, abuso di colori fluo come se fossimo in una serata al Piper, un’accozzaglia di animazioni da far venire il mal di mare ai malcapitati spettatori e così via), a slide così piene di testo che anche facendo corsi di lettura veloce impiegheremmo un quarto d’ora a leggerne una, da slide con foto di bassa qualità, spesso sgranate come nelle riviste scandalistiche dei tempi andati, a slide in cui la mitomania di chi pensa di essere la nuova Facebook ha libero sfogo (per cui su ogni slide abbiamo numero della slide, la scritta “Riservato e Confidenziale”, il logo della startup, una cornice che costringe ad usare solo parzialmente lo spazio sulla slide e altre amenità di questo tipo). Rientrano in questa tipologia anche le slide la cui progettazione grafica non è coerente con il messaggio della startup (per cui abbiamo slide funeree per startup la cui value proposition è relativa al divertimento, oppure slide evidentemente progettate da persone affette da forme gravi di daltonismo per startup che si rivolgono al mondo della moda e così via).
Sorvolando rapidamente sul fenomeno delle slide che non si leggono (spesso chi le ha preparate immagina che scrivere nero su sfondo blu, o usare il giallo tenue su sfondo bianco sia una trovata originale), si apre il mondo dello standing, cioè di come chi presenta parla e si muove sul palco. Anche per questo aspetto la categoria degli errori è più o meno sempre la stessa: si parte dagli speaker che pensano di dover usare un linguaggio più adatto ad un bando pubblico o ad una seduta del Parlamento invece che ad un’audience che ha la necessità di capire velocemente tutto quello che viene detto nei pochi minuti del pitch, a quelli che tarantolati si muovono freneticamente sul palco (spesso dondolando avanti e dietro), da quelli che pensano che il “microfono gelato” va messo davanti alla pancia a quelli che prima di salire sul palco sono stati raggiunti da qualche luttuosa notizia e che, quindi, invece di trasmettere eccitazione per il progetto trasmettono una profonda depressione. Ma lasciamo stare la forma e passiamo ad analizzare rapidamente la sostanza, cioè il contenuto delle slide. Qui va fatta una precisazione: gli ambiti di interesse per gli investimenti che effettuo mi portano ad assistere quasi esclusivamente a pitch di startup tech, cioè in cui la parte software ha un ruolo rilevante, early stage, cioè che sono nelle fasi iniziali dello sviluppo dell’azienda. Per questo tipo di startup un errore grossolano e piuttosto comune è quello di spendere una parte considerevole del tempo di presentazione a raccontare in dettaglio la soluzione a cui si sta lavorando senza dare invece molta importanza al problema che si vuole risolvere. In realtà andrebbe fatto esattamente il contrario. Un importante investitore americano ama dire “pitch the problem, not the solution” perché quello che veramente interessa chi investe in startup early stage è capire che problema si sta indirizzando, perché è un problema rilevante, chi ha quel problema, che cosa implica avere quel problema, perché adesso è il momento giusto per risolverlo e così via. In altri termini, la “dimensione” del problema è un elemento fondamentale nella decisione di investire in una startup early stage. Ovviamente la soluzione che si è individuata per il problema è un elemento importante, ma in un pitch è sufficiente capire quali siano gli elementi di valore peculiari che permettano di risolvere il problema (cioè la unique value proposition) in quanto la eventuale analisi dettagliata della soluzione stessa è un’attività che può essere svolta in fase di approfondimento e per un investitore ha senso approfondire solo soluzioni a “problemi grandi”.
Quando si entra nell’ambito della sostanza emergono inoltre moltissimi errori che nascono quasi sempre da ingenuità che spesso sconfina nella non conoscenza delle basi richieste ad una startup (per cui si chiama “business model” quello che in realtà è semplicemente un “revenue model”, si presentano piani di sviluppo quinquennali quando gli investimenti hanno un orizzonte temporale di 18 mesi, si parla di raggiungere il break-even in tempi ridottissimi quando non solo la cosa è chiaramente un pio desiderio, ma è quasi sempre totalmente irrilevante per un investitore che si aspetta di sostenere la crescita della startup iniettando più volte liquidità e così via).
Purtroppo la casistica è ancora lunga, per cui mi trovo costretto a chiudere citando solo due errori anch’essi piuttosto comuni: il primo consiste nel presentare l’analisi dei competitor differenziandosi perché “si fanno più cose” (tipicamente una lista di funzionalità che altri non implementano) e non per l’aver capito qualcosa di diverso dalla concorrenza, ma importante per i clienti; il secondo è quello di pensare che sia una buona value proposition “avere un prezzo più basso” senza capire che la differenziazione sul prezzo, a meno di non poter dimostrare di aver costi di produzione e distribuzione realmente e significativamente più bassi, è sempre una via perdente.