La direttiva 2023/970, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 17 maggio 2023, è finalizzata a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne e della trasparenza dei contratti di lavoro, sia pubblici che privati, con l’intento di abolire il segreto salariale contenuto nelle clausole contrattuali.
Si tratta di un obiettivo inserito nel PNRR che mira a ridurre questo divario, così da raggiungere un maggiore livello di benessere e qualità delle condizioni di lavoro.
Basti pensare che le donne in Ue guadagnano in media il 14% in meno degli uomini per lo stesso lavoro e che, in termini pensionistici, questo si traduce in un gap di quasi il 30%.
In Italia il gender gap, ossia divario di condizioni e trattamento economico tra uomini e donne in campo lavorativo, è più elevato nel privato che non nel pubblico. Nel settore privato, gender pay gap presenta fin dall’inizio un consistente vantaggio della componente maschile (8,2%), che cresce regolarmente al crescere dell’età fino a raggiungere il 24,4% per gli individui con più di cinquant’anni. Se si va ad analizzare, poi, le retribuzioni fra i professionisti, il divario è enorme: i dati OECD mostrano infatti che nel nostro Paese il gender pay gap riferito al reddito medio annuo da lavoro autonomo tocca il 45%..
Stando alla Direttiva, i datori di lavoro avranno l’obbligo di fornire alle persone in cerca di lavoro informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla fascia retributiva dei posti vacanti, riportandole nel relativo avviso o comunicandole prima del colloquio di lavoro. Ai datori di lavoro sarà inoltre fatto divieto di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro. Una volta assunti, i lavoratori e le lavoratrici avranno il diritto di chiedere ai propri datori di lavoro informazioni sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. I lavoratori avranno inoltre accesso ai criteri utilizzati per determinare la progressione retributiva e di carriera, che devono essere oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.
Cambiano, infine, anche le regole procedurali che prevedono un’inversione dell’onere della prova a carico del datore di lavoro che, se citato in giudizio per violazione della parità retributiva, sarà tenuto a dimostrare l’insussistenza della discriminazione retributiva diretto o indiretta.
Fin qui tutto bene. In realtà il grande entusiasmo manifestato per la novella, è in gran parte mitigato da una serie di osservazioni. In primo luogo, la direttiva non ha nessun effetto immediato nel nostro Paese, il Governo italiano ha quasi tre anni di tempo per attuarla (7 giugno 2026). In secondo luogo, si tratta di una direttiva e, come tale, prevede degli obiettivi generali che gli Stati membri devono raggiungere con strumenti assolutamente discrezionali che in genere rendono l’applicazione meno traumatica e armonica con contesto di riferimento.
Il timore è quindi che, dietro nobili intenti, l’Italia progredisca formalmente ma resti sostanzialmente ancorata a vecchi tabù e stereotipi culturali.