Il 7 marzo scorso nei locali della Camera di commercio Chieti Pescara si è tenuto un seminario dal titolo “Parità di Genere: dallo sport all’azienda“, promosso dal Comitato per l’Imprenditoria Femminile, nella persona della sua Presidente Antonella Marrollo. Un’occasione per riflettere e dibattere di parità di genere, disparità salariali, diversità e inclusione, alla presenza di due testimonial d’eccezione: Ivana Di Martino, atleta ultramaratoneta e coach professionista, e Marcella Loporchio, Business Consultant e esperta di Empowerment Femminile.
Dati, esperienze e riflessioni si sono avvicendate in una cornice istituzionale che ha ospitato imprenditrici, lavoratrici, rappresentanti del mondo della cultura locale e dell’associazionismo: donne interessate a dibattere di imprenditoria femminile, stereotipi di genere, educazione alla diversità e al rispetto reciproco, consapevoli della necessità di continuare a sensibilizzare cittadini, istituzioni e corpi sociali rispetto alla cosiddetta “questione femminile”.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di “questione femminile” e perché è ancora importante discuterne? Negli anni delle astronaute e delle avvocatesse, della prima donna presidente del Consiglio, dei proclami in favore della genitorialità condivisa e dei grandi investimenti pubblici per le imprese in rosa, perché parlare ancora di disparità di genere?
La risposta me la fornisce, chiara e spiazzante, un veloce giro sui social e, in particolare, la lettura di uno studio, riportato all’interno di un post di una famosa testata giornalistica nazionale, riguardante le difficoltà delle donne lavoratrici di conciliare vita familiare e professionale.
Scelgo di approfondire lo studio, prima di avventurarmi coraggiosamente nella lettura dei commenti, sperando di trovare dati confortanti. Scopro che, secondo i dati Eurostat, il tasso di occupazione femminile in Italia, a fine 2022, è di circa 14 punti percentuali al di sotto della media UE ed è in larga parte un’occupazione precaria, in settori a bassa remuneratività o poco strategici e con una netta prevalenza del part time. Scopro che, tra il salario annuale medio percepito da un uomo e da una donna c’è una differenza pari al 43 per cento, e nelle imprese italiane solo il 24% dei CEO e il 32% dei manager è donna, nonostante i rendimenti delle imprese gestite o co-gestite da donne siano nettamente maggiori. Scopro, infine, che quando una donna un lavoro ce l’ha, nel 20 percento dei casi lo lascia a seguito della maternità e lo fa, per più della metà delle volte, per esigenze di conciliazione.
Scopro anche, però, che In Italia, nonostante le difficoltà legate all’ accesso al credito e al lavoro di cura, le imprese femminili sono più prospere e propense a reinventarsi in momenti di crisi, che le imprenditrici hanno un’età media più bassa (49 anni) dei loro colleghi uomini (52 anni) con una forte componente Under 35 e che sono finanche più istruite (il 34,5% delle imprenditrici a fronte del 23,4% degli uomini possiede una laura). E scopro, soprattutto, che tutto questo è vero anche nel meridione, che in vari settori sconta divari culturali ed economici significativi, dove il numero delle imprese femminili nel 2023 ha superato la media nazionale (la provincia di Chieti è terza per incidenza in tutta Italia).
Bene, mi dico, c’è speranza e, spinta dalla curiosità, passo alla lettura dei commenti al post. Questo è ciò che leggo nelle prime tre righe:
“La vita è fatta di scelte. O fate le mamme o fate le career woman, senza frignare”.
“Le donne dovrebbero stare in casa a fare la sfoglia”.
“L’uomo è predatore e la donna è preda”.
Mi sento stranita. Ho come la sensazione che queste parole siano state scritte per me. Le sento sulla pelle, come se mi fossero state rivolte da un conoscente, da un familiare o durante un colloquio di lavoro: sono parole violente eppure incredibilmente ordinarie, tanto facili da scrivere e da dire che è come se le avessi sentite un milione di volte. È come se le avessimo sentite un milione di volte.
Cerco di capire di più e, per farlo, mi rivolgo a Marcella Loporchio, approfittando della sua presenza al convegno. Le chiedo quale sia il nesso fra il basso tasso di occupazione femminile o le difficoltà per una donna ad aprire e portare avanti un’impresa e quei commenti. Se un nesso c’è, soprattutto.
“È una questione di cultura ed educazione alla diversità”, mi dice. “Quando parlo di donne, in realtà, parlo di persone, della valorizzazione della loro unicità e di attenzione ai loro bisogni ed è questo quello che i manager, in primis, dovrebbero comprendere. Al giorno d’oggi, disponiamo di tanti strumenti normativi volti all’abbattimento delle barriere di genere sul lavoro – quote rosa, certificazioni, trasparenza salariale, congedi di paternità – ma non riusciamo ad utilizzarli come dovremmo, perché dimentichiamo che, alla base, ci sono questioni più semplici, questioni culturali, per l’appunto: l’uso delle parole e del linguaggio, la comunicazione e il confronto senza giudizio, chiedere ad una donna “di cosa hai bisogno per continuare a lavorare in quest’azienda?” anziché dirle “ti ho sollevato da queste attività per semplificarti il rientro”, la creazione di un ambiente lavorativo a misura di “persona”, e non solo di donna o uomo, che tenga in considerazione abilità, sensibilità e passioni di chi lavora. Quei commenti sono frutto di una società maschile e maschilista, che dimentica, però, che per molto tempo, e in alcune zone del nostro Paese ancora oggi, sono state le donne a gestire, governare e sfamare la famiglia e che, in fin dei conti, più che di “ruoli” e “potere” sarebbe opportuno parlare, oggi, di compiti, opportunità, occasioni. Il problema non è solo quello che le donne fanno, oggi, ma quello che potrebbero fare, domani: dietro questi commenti si cela la paura che i ruoli che la società per tanto tempo ha imposto possano cambiare, l’impreparazione, culturale e affettiva, di fronte all’espressione libera del proprio essere, l’incapacità di guardare allo sviluppo, libero e autonomo, della persona e, in particolare, in questo caso, della donna. Ed è proprio da questo che passa il mettersi in gioco, la ricerca della propria realizzazione nella vita e nel lavoro: le donne cercano un lavoro, e lo mantengono, se vogliono e sono incentivate a farlo, se esiste una rete di supporto, pubblica e privata, che in caso di difficoltà le protegga e non le intrappoli, se il lavoro di cura è equamente diviso fra mogli, mariti, fratelli e sorelle, se l’azienda presso cui sono impiegate riconosce e promuove il merito, non il sesso, se hanno la possibilità di diventare ciò che vogliono essere. Se la società e le istituzioni non si adoperano per questo, avallando la paura e il pregiudizio insiti in quei commenti, scatta l’abbandono, l’isolamento, la chiusura. Scattano, purtroppo, gli abusi, le violenze, le discriminazioni, anche, c’è da dirlo, da donna a donna. Ne faccio una questione di persone proprio perché, alle volte, siamo noi donne le nostre peggiori nemiche: pensiamo di non essere all’altezza, di dover dare di più per ottenere un certo risultato o che le altre donne siano un pericolo per noi e per la nostra realizzazione, una sorta di sindrome dell’impostore, che ci impone di essere perfette ma ci fa sembrare di non esserlo mai davvero. Queste distorsioni cognitive sono insite nel nostro pensiero, ce le portiamo dietro dalla nascita e fatichiamo ad abbandonarle perché ce le siamo ripetute talmente tante volte (o forse ce le hanno ripetute…) che ormai fanno parte integrante di noi ed è per questo che è importante conoscerle, riconoscerle e parlarne”.
E come possiamo passare avanti, Marcella, se non si tratta solo di “numeri”? Se l’abbattimento delle barriere di genere non dipende, solo e soltanto, da una riserva di posti o da un differenziale stipendiale, ma anche e soprattutto dalla diffusione di modelli comunicativi e culturali inclusivi, dal riconoscimento e dalla valorizzazione della diversità, dell’ “altro da noi”?
“Parlando e informando in modo corretto, così da trasferire alle nuove generazioni prospettive di crescita e sviluppo più ampie di quelle che stiamo vivendo noi. Rivendicando uno spazio di ascolto e condivisione, fatto di attenzione al singolo ma anche di collettività, fatto anche di “noi”. Praticando la gentilezza e la “sorellanza”, creando reti di supporto, pubbliche, private, fra amiche, colleghe e sconosciute, non smettendo di raccontarci e raccontare il nostro vissuto ed esigendo attenzione, esigendo riconoscimento, di diritti, dignità ed individualità.”
Dopo queste parole, torno alla domanda di apertura e, in conclusione, dopo aver analizzato dati e statistiche, letto commenti, aver ascoltato esperte del settore e donne, imprenditrici e lavoratrici, la risposta che sento di darmi è, nel bene o nel male, positiva: la questione femminile esiste ancora e, proprio per questo, parlarne è quanto mai importante. E parlarne pubblicamente, in uno spazio istituzionale, come è stato fatto in Camera di commercio, alla presenza di qualcuno che ci ascolti e ci spieghi il perché di questa realtà, è indispensabile. La questione femminile è una questione complessa, annidata nei numeri, nelle statistiche, nelle difficoltà di accesso ai finanziamenti e alle misure di sostegno, nelle silenziose rinunce alla carriera e all’istruzione, nelle maternità “cool” e in quelle negate, nel mansplaning, nelle storie di abuso e privazione. Numeri, che solo occasionalmente, tornano a solcare le prime pagine dei quotidiani, quando, come la cronaca recente ci insegna, è ormai troppo tardi per intervenire. E allora discutiamone, ora, alla presenza di tutti, uomini e donne, nei luoghi di istruzione, in famiglia e negli spazi istituzionali, perché è dal sano confronto che passa l’educazione alla diversità, il rispetto reciproco e la valorizzazione delle differenze.